La via degli angeli
Un cane dal pelo bianco si sofferma a guardarmi; l’uomo che lo tiene al guinzaglio con uno strattone lo distoglie dalla sua curiosità senza fermarsi. Si allontanano da me di buon passo. La piazza è piena di gente che va e viene. E’ un pomeriggio di fine estate. Sono seduto sul sagrato di una chiesa a guardare le ragazze che passano; è un modo come un altro per finire una giornata di lavoro cercando di dimenticare come la si è trascorsa. Ma in realtà è stato un sogno a portarmi proprio qui. Di fronte a me, sull’altro marciapiede, vedo delle persone muoversi dietro alla vetrina di un ristorante ancora chiuso. Stanno preparando. E’ proprio quello il luogo; il luogo del sogno. L’immagine mi ha riportato un pensiero, ed il volto di un uomo che invece non riesco a ricordare. Volto e pensiero sono legati ad un giorno vecchio di quindici anni, il giorno del mio diciannovesimo compleanno. Ero a festeggiare con gli amici, seduto al posto di capo tavola; ad un certo punto le luci erano state abbassate quasi del tutto ed era entrata la cameriera portando la torta con le candeline accese, una ragazza carina carina dagli occhi di gatta. Soffiai forte sino a spengerle, poi la luce venne riaccesa, e non so come il mio sguardo incrociò quello di un uomo seduto ad un altro tavolo. Durò un solo, lunghissimo momento quello sguardo, poi ci perdemmo per sempre. Ma qualcosa era rimasto, poche parole non dette, un pensiero nato già lucido come una consapevolezza acquisita: domani più niente sarà come oggi.
Scrivere o vivere
C’è modo e modo di porsi delle domande sulla vita in genere. Lo si può fare al banco del bar Floridita con una caipirinha in mano, o venti anni dopo di fronte alla parete bianca di una camera da letto di Ketchum, Idaho, ma torniamo sempre lì: o scrivo o vivo, pensavo. Un giorno, su una strada di campagna, scappavo a quaranta all’ora su una FIAT del ’66 ed era il tramonto di una bellissima giornata di primavera, e io ero lì, nella macchina, da solo, e all’improvviso ecco che mi assale una sensazione, come dire? di unità con tutto me stesso, come se mi fossi riappropriato di qualcosa che avevo lasciato da qualche parte ma che era essenziale per la mia sopravvivenza. Una sensazione bellissima e struggente, il pensiero non detto che stavolta mi sarei bastato una volta e per sempre. Un’idea – fuggevole, banale per la maggior parte delle persone ma evidentemente non per me – mi attraversò il cervello. Forse vivere era più importante che scrivere.
Incipit
Quando non ci sarò più
non togliete i segni dai miei libri,
quelle orecchie che tagliano
l’angolo alto delle pagine –
piuttosto cercatemi lì,
tra le parole che ho scelto,
come una traccia lieve
ripercorrendo la mia vita.
Non eroi, ma esempi
L’esigenza di produrre un cambiamento è un’esigenza di giustizia; ma il cambiamento non si può imporre: nella società così come negli uomini, esso avviene e soprattutto si stabilizza solo al consolidarsi di una cultura condivisa che lo fa proprio. Per questo non credo nei massimi sistemi che possono solo essere governati in modo coercitivo, ma nell’impegno del singolo di farsi testimone delle proprie idee. Per costruire il futuro non c’è bisogno di eroi, ma di esempi.
Il lavoro come male necessario
Ci arriverò solo con gli anni: maggiore è la distanza tra le mansioni professionali e l’attività intellettuale, più riesco a fare chiarezza. È come nei film di Elvis dove lui interpreta il ruolo di pilota di auto, tuffatore, carcerato (Jailhouse Rock), ma in realtà è un cantante, ecco: togliendomi la giacca e mettendomi la tuta mi torna improvvisamente in mente che io sono uno scrittore, di quelli che pubblicheranno libri che resteranno negli anni, non un avvocato in formazione o qualunque altra cosa. Che il lavoro sia solo un male necessario per tirare avanti mentre getto le basi della mia opera – e più distante è da qualunque contaminazione (diciamo così) intellettuale, più riesco ad accettarlo e rimanere concentrato su quello che credo essere il mio destino.
Ricordi di una scuola che ho dimenticato ma che non scorderò mai
Inizialmente – anche durante la mia breve frequenza della seconda classe – avevo provato a spiegare, coi miei poveri mezzi di bambino, che mi annoiavo a passare le giornate a fare stanghette e cerchietti e poi a passare intere mattinate ad ascoltare come si scrive “casa” o “ape”. Che reputavo un’ingiustizia essere ripreso per queste rimostranze; e ancora di più che i miei compagni mi attaccassero prendendo a prestito le stesse stupide motivazioni degli insegnanti, provocando la medesima reazione scomposta che avrei avuto nei luoghi da cui provenivo, ovvero la parola che passava attraverso le mani. Fu allora che maturai la certezza che la diversità – di qualunque genere – costituisce il movente più gettonato dall’uomo per attaccare il suo simile.
Se non ti esplode dentro
a dispetto di tutto,
non farlo.
a meno che non ti venga dritto dal
cuore e dalla mente e dalla bocca
e dalle viscere,
non farlo.
se devi startene seduto per ore
a fissare lo schermo del computer
o curvo sulla
macchina da scrivere
alla ricerca delle parole,
non farlo.
se lo fai solo per soldi o per
fama,
non farlo.
se lo fai perché vuoi
delle donne nel letto,
non farlo.
se devi startene lì a
scrivere e riscrivere,
non farlo.
se è già una fatica il solo pensiero di farlo,
non farlo.
se stai cercando di scrivere come qualcun
altro,
lascia perdere.
se devi aspettare che ti esca come un
ruggito,
allora aspetta pazientemente.
se non ti esce mai come un ruggito,
fai qualcos’altro.
se prima devi leggerlo a tua moglie
o alla tua ragazza o al tuo ragazzo
o ai tuoi genitori o comunque a qualcuno,
non sei pronto.
non essere come tanti scrittori,
non essere come tutte quelle migliaia di
persone che si definiscono scrittori,
non essere monotono o noioso e
pretenzioso, non farti consumare dall’auto-
compiacimento.
le biblioteche del mondo hanno
sbadigliato
fino ad addormentarsi
per tipi come te.
non aggiungerti a loro.
non farlo.
a meno che non ti esca
dall’anima come un razzo,
a meno che lo star fermo
non ti porti alla follia o
al suicidio o all’omicidio,
non farlo.
a meno che il sole dentro di te stia
bruciandoti le viscere,
non farlo.
quando sarà veramente il momento,
e se sei predestinato,
si farà da
sé e continuerà
finché tu morirai o morirà in
te.
non c’è altro modo.
e non c’è mai stato.
Sociologia e nuvole
Ci sono arrivato, alla sociologia, passando per strade traverse. Non "per caso" (non me lo sentirete mai dire), ma per un percorso di circostanze che magari un giorno prima o poi avrò voglia di raccontare. Nella mia accezione, fatico a pensare questa disciplina come una "scienza": piuttosto una prospettiva di osservazione e analisi, e in questo senso assolutamente compatibile con le belle lettere, anzi. Forse i sobborghi e la dura realtà delle fabbriche nell'età vittoriana l'ha raccontati meglio Dickens di Charles Booth: senz'altro Hard Times è stato letto da molte più persone dei volumi di Life and Labour of the People. Dunque spazio allo stile anche nella produzione cosiddetta "scientifica".
E poi, col tempo, ho maturato anche un'altra convinzione. Per capire alcuni meccanismi di funzionamento degli uomini, e le loro dinamiche relazionali, credo che la prospettiva della sociologia (intendo dire l'uomo come parte di un tutto) sia più adatta di quella della psicologia. E' una opinione personale e vale quella che vale, naturalmente. Ma io penso che, mentre il destino individuale è qualcosa che ha a che fare con la metafisica - per cui è impossibile capire perché qualcuno compia un tal gesto, e tanto meno prevederlo - in quello della collettività siano invece più marcate le tracce di meccanismi nei quali ci riconosciamo, che agiamo e ci agiscono. Nella massa c'è cultura, habitus, dinamiche di appartenenza, nel singolo forse prevale solo l'imponderabile spinta verso la realizzazione del proprio daimon. La prima è per me oggetto di studio e riflessione, la seconda un mistero che osservo a debita distanza senza volerlo svelare.
Io. Scrittore
In virtù di quali caratteristiche potrei definirmi, a ragione – e soprattutto senza presunzione – uno scrittore? Non certo attraverso il criterio della professionalità legato al reddito; tradirei autori di valore assoluto come Kafka, Nabokov, Vonnegut, che potevano permettersi di far fronte alle spese del quotidiano grazie a lavori di diverso genere. Peraltro, ben pochi vivono esclusivamente dei loro diritti d’autore, anche se si definiscono scrittori: quelli che riescono a non allontanarsi (apparentemente) dal loro perimetro, prestano la loro penna a giornali e riviste, oppure insegnano materie affini; altri si arrangiano approfittando dell’equivoco che abilita chi scrive – qualunque cosa e in qualunque modo – alla figura dell’intellettuale organico, presenziando talk show, convegni, apparizioni pubbliche di ogni genere. Ma per definirmi uno scrittore non credo sia corretto neppure innalzare l’Editore come variabile determinante; perché le persone conoscono solo ciò che vedono, ed è lui – diciamolo senza ipocrisie – che decreta la fortuna di un libro e del suo autore (ma non necessariamente la sua qualità) investendo sulla promozione e sulla distribuzione. Di conseguenza neppure il pubblico può attribuire la qualifica di scrittore a qualcuno di cui leggono – e magari persino apprezzano – l’opera. Può farlo – oggettivamente – solo il tempo, unico giudice supremo e inappellabile che separa la moltitudine di autori che vengono dimenticati, anche dopo aver venduto milioni di copie, dai pochi che rimangono grazie a ciò che hanno scritto. Ma soggettivamente – e in tempo reale – l’unico, solo criterio al quale mi sento di fare riferimento è l’ostinazione, che per quanto mi riguarda mi accompagna da che ho memoria, la convinzione di lasciare un segno nella letteratura. Non necessariamente immaginarsi un “prima” e di un “dopo” di noi, ma di un graffio, anche lieve, ma che altera, modificandola per sempre, quella stessa pagina su cui lavorano coloro che scrivono con questo obiettivo. Gli scrittori, appunto. Non un mestiere, ma una disposizione d’animo, un orizzonte. Ecco: in questo senso io mi definisco uno scrittore.