Se non ti esplode dentro
a dispetto di tutto,
non farlo.
a meno che non ti venga dritto dal
cuore e dalla mente e dalla bocca
e dalle viscere,
non farlo.
se devi startene seduto per ore
a fissare lo schermo del computer
o curvo sulla
macchina da scrivere
alla ricerca delle parole,
non farlo.
se lo fai solo per soldi o per
fama,
non farlo.
se lo fai perché vuoi
delle donne nel letto,
non farlo.
se devi startene lì a
scrivere e riscrivere,
non farlo.
se è già una fatica il solo pensiero di farlo,
non farlo.
se stai cercando di scrivere come qualcun
altro,
lascia perdere.
se devi aspettare che ti esca come un
ruggito,
allora aspetta pazientemente.
se non ti esce mai come un ruggito,
fai qualcos’altro.
se prima devi leggerlo a tua moglie
o alla tua ragazza o al tuo ragazzo
o ai tuoi genitori o comunque a qualcuno,
non sei pronto.
non essere come tanti scrittori,
non essere come tutte quelle migliaia di
persone che si definiscono scrittori,
non essere monotono o noioso e
pretenzioso, non farti consumare dall’auto-
compiacimento.
le biblioteche del mondo hanno
sbadigliato
fino ad addormentarsi
per tipi come te.
non aggiungerti a loro.
non farlo.
a meno che non ti esca
dall’anima come un razzo,
a meno che lo star fermo
non ti porti alla follia o
al suicidio o all’omicidio,
non farlo.
a meno che il sole dentro di te stia
bruciandoti le viscere,
non farlo.
quando sarà veramente il momento,
e se sei predestinato,
si farà da
sé e continuerà
finché tu morirai o morirà in
te.
non c’è altro modo.
e non c’è mai stato.
Sociologia e nuvole
Ci sono arrivato, alla sociologia, passando per strade traverse. Non "per caso" (non me lo sentirete mai dire), ma per un percorso di circostanze che magari un giorno prima o poi avrò voglia di raccontare. Nella mia accezione, fatico a pensare questa disciplina come una "scienza": piuttosto una prospettiva di osservazione e analisi, e in questo senso assolutamente compatibile con le belle lettere, anzi. Forse i sobborghi e la dura realtà delle fabbriche nell'età vittoriana l'ha raccontati meglio Dickens di Charles Booth: senz'altro Hard Times è stato letto da molte più persone dei volumi di Life and Labour of the People. Dunque spazio allo stile anche nella produzione cosiddetta "scientifica".
E poi, col tempo, ho maturato anche un'altra convinzione. Per capire alcuni meccanismi di funzionamento degli uomini, e le loro dinamiche relazionali, credo che la prospettiva della sociologia (intendo dire l'uomo come parte di un tutto) sia più adatta di quella della psicologia. E' una opinione personale e vale quella che vale, naturalmente. Ma io penso che, mentre il destino individuale è qualcosa che ha a che fare con la metafisica - per cui è impossibile capire perché qualcuno compia un tal gesto, e tanto meno prevederlo - in quello della collettività siano invece più marcate le tracce di meccanismi nei quali ci riconosciamo, che agiamo e ci agiscono. Nella massa c'è cultura, habitus, dinamiche di appartenenza, nel singolo forse prevale solo l'imponderabile spinta verso la realizzazione del proprio daimon. La prima è per me oggetto di studio e riflessione, la seconda un mistero che osservo a debita distanza senza volerlo svelare.
Io. Scrittore
In virtù di quali caratteristiche potrei definirmi, a ragione – e soprattutto senza presunzione – uno scrittore? Non certo attraverso il criterio della professionalità legato al reddito; tradirei autori di valore assoluto come Kafka, Nabokov, Vonnegut, che potevano permettersi di far fronte alle spese del quotidiano grazie a lavori di diverso genere. Peraltro, ben pochi vivono esclusivamente dei loro diritti d’autore, anche se si definiscono scrittori: quelli che riescono a non allontanarsi (apparentemente) dal loro perimetro, prestano la loro penna a giornali e riviste, oppure insegnano materie affini; altri si arrangiano approfittando dell’equivoco che abilita chi scrive – qualunque cosa e in qualunque modo – alla figura dell’intellettuale organico, presenziando talk show, convegni, apparizioni pubbliche di ogni genere. Ma per definirmi uno scrittore non credo sia corretto neppure innalzare l’Editore come variabile determinante; perché le persone conoscono solo ciò che vedono, ed è lui – diciamolo senza ipocrisie – che decreta la fortuna di un libro e del suo autore (ma non necessariamente la sua qualità) investendo sulla promozione e sulla distribuzione. Di conseguenza neppure il pubblico può attribuire la qualifica di scrittore a qualcuno di cui leggono – e magari persino apprezzano – l’opera. Può farlo – oggettivamente – solo il tempo, unico giudice supremo e inappellabile che separa la moltitudine di autori che vengono dimenticati, anche dopo aver venduto milioni di copie, dai pochi che rimangono grazie a ciò che hanno scritto. Ma soggettivamente – e in tempo reale – l’unico, solo criterio al quale mi sento di fare riferimento è l’ostinazione, che per quanto mi riguarda mi accompagna da che ho memoria, la convinzione di lasciare un segno nella letteratura. Non necessariamente immaginarsi un “prima” e di un “dopo” di noi, ma di un graffio, anche lieve, ma che altera, modificandola per sempre, quella stessa pagina su cui lavorano coloro che scrivono con questo obiettivo. Gli scrittori, appunto. Non un mestiere, ma una disposizione d’animo, un orizzonte. Ecco: in questo senso io mi definisco uno scrittore.