LA MIA BIBLIOTECA
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JOSEPH ROTH: IN FUGA DAL NIENTE VERSO IL NIENTE
Roth visse fino al 1922 a Berlino con la moglie Friedl Reichler (che fu vittima del programma di eutanasia dei nazisti); dall'anno successivo, nel quale aveva iniziato a lavorare come corrispondente per il Frankfurter Zeitung, fino al maggio del 1939, quando morì all'ospizio dei poveri a Parigi, abitò in camere d’albergo, scrivendo ai tavolini di ristoranti e caffè.
Franz Tunda, alter ego di Roth, giovane ufficiale asburgico, nel corso della Prima Guerra Mondiale viene fatto prigioniero a Irkutsk; riesce a fuggire, vivendo nella steppa siberiana, poi si arruola nell’Armata Rossa, si sposta in Caucaso e infine riesce a rientrare in Europa: nella sua Vienna, dove si sente oramai straniero, poi a Berlino, e a Parigi, ridotto nella più assoluta miseria. Tunda si ritrova «senza nome, senza credito, senza rango, senza titolo, senza soldi e senza professione; non aveva né patria né diritti» scrive Roth, e sta parlando di sé, e dei milioni di reduci di tutti gli eserciti, rimpatriati, ma incapaci di reinserirsi. La fuga senza una meta è la metafora dell’individuo si dissolve nel nulla, segnando il destino dell'intera società borghese.
HENRY JAMES: I FANTASMI DENTRO DI NOI
Non sappiamo - e forse non sapremo mai - se davvero esiste un mondo fuori noi, oppure la realtà sia solo una nostra proiezione; se le nostre paure provengano da qualcosa che ci minaccia davvero o siano qualcosa che ci portiamo dentro - luoghi oscuri che di tanto in tanto, dietro la spinta di un'emozione, escono alla luce. Henry James tratteggia questa zona d'ombra con maestria inarrivabile: non vi aspettate niente di esplicito - niente Stephen King ma nemmeno Dean Koontz. "Solo" una prosa elegantissima (anche nella traduzione) che tratteggia stati d'animo e inquietudini in cui, abbandonandosi alla lettura, ognuno può ritrovarsi. Capolavoro.
L'ULTIMA FUGA DI TOLSTOJ
Il ventesimo secolo per i russi comincia il 7 novembre 1910 con la morte di Lev Tolstoj. O forse il 28 ottobre, quando fugge dalla sua residenza di Jasnaja Poljana, senza sapere dove andare e nemmeno esattamente perché. È certo che non sopportava più le contraddizioni della sua esistenza, che riflettevano quelle del Paese al tempo: la ricchezza dell'aristocrazia e la povertà delle masse contadine. Prigioniero delle agiate consuetudini della sua famiglia, e oppresso dalla moglie, una notte decide di farla finita e sparire, per morire – anche a causa dei disagi del viaggio – nella sperduta stazione ferroviaria di Astàpovo, dove accorsero migliaia di persone al suo capezzale. Una fuga, scrive Cavallari, "tra passato e presente, tra rivolte e rassegnazione, tra una moglie avida di denaro e il suo sogno francescano, tra il mondo contadino che non era più quello della sua infanzia e la città delle fabbriche che rifiutava, tra la sua vita accanto ai semplici mugiki e la sua vita prigioniera di una corte dispendiosa, adulante, servile, tra un'esistenza selvatica fatta di cavalcate, marce nel fango, ore allo scrittorio, e una fama di grande scrittore".
GIUSEPPE PETRONIO: LEGGERE SI IMPARA
Leggere è principalmente una passione - condivisa da una minoranza esigua della popolazione, ma non per questo meno importante. I sociologi amanti della statistica la riconducono all'habitus familiare, in soldoni alla presenza di una biblioteca nella casa in cui un bambino cresce, ma peccano di miopia. Senz'altro qualcuno che avvicina una persona a quel meraviglioso veicolo di mondi infiniti che è il libro può essere importante per stimolare la curiosità, dopo di che, è la predisposizione del terreno in cui viene piantato il seme che fa la differenza. Ma anche laddove questo terreno è fertile, a leggere anche si impara. Non dalla terza pagina dei quotidiani, ridotta a mera vetrina pubblicitaria, ma andando a cercare nell'opera di certi critici intellettualmente indipendenti. Ancora di più se si è lettori "forti". Come arrampicarsi su per una montagna, e, una volta in cima, scoprire che ci sono altre, infinite vette da affrontare.
LOUIS FERDINAND CÉLINE: DIFFIDATE DI QUELLO CHE VIENE RACCONTATO
Un genio si aggira nel secolo breve. E' un medico che si occupa di curare i poveri dei sobborghi parigini, spesso senza avere neppure il coraggio di chiedere loro i soldi per la visita. Un medico che negli anni '30 mette sulla carta lo squallore della condizione umana con un romanzo folgorante, riconfermandosi con il successivo. Intanto sull'Europa si accumulano le nubi di un nuovo conflitto mondiale. Le guerre sono tutte guerre combattute nel nome e per conto del capitale, aveva detto Marx, e lui, che aveva partecipato al mattatoio del '14-'18 lo sa bene. Cèline è un anarchico; ne ha abbastanza di divise e civili uccisi. Quando i fascismi ancora erano guardati con simpatia dalle grandi potenze che a breve poi li combatteranno, profeticamente alza la voce contro le grandi lobby che stanno tramando per ridiscutere con le armi i fragili assetti usciti dall'armistizio pochi anni addietro. Tra loro c'è anche la rete dei ricchissimi banchieri ebrei. Scrive tre pamphlet che all'epoca ricalcavano toni e sentimenti condivisi in ambiti che spaziavano dagli estremi dei pacifisti e degli interventisti. Poi la guerra. La Francia si abbandona all'abbraccio del nazismo; i suoi intellettuali - quelli che dopo si schiereranno con i partiti comunisti che guardano alla Russia di Stalin - silenziosamente prosperano, su tutti Sartre. Dopo il crollo del regime hitleriano si corre a schierarsi coi vincitori, e c'è bisogno di puntare il dito per distinguersi dai colpevoli. Contro Céline - che non ha mai collaborato, e neppure espresso simpatie per i nazisti - ci sono però i suoi famigerati pamphlet. E' un perfetto colpevole che riabilita agli occhi del mondo l'intellighènzia francese mettendo in secondo piano la passività verso gli occupanti tedeschi. Condannato a morte, è costretto a fuggire in esilio con la moglie e l'amato gatto Bèbert - patisce disagi fisici e psicologici, ma soprattutto l'isolamento culturale e la dissoluzione della sua opera. Ma lo stesso scrive pagine amare e sarcastiche, continua a lavorare sulla lingua contaminandola con l'argot e il ritmo delle emozioni che racconta. Poi la sua parziale riabilitazione gli permette di tornare in Francia, e inizia la battaglia con Gallimard per iscrivere le sue pagine nella Pléiade della letteratura mondiale. Minato nel fisico, si ritira nei sobborghi di Parigi con la moglie e i suoi animali. Lo scrittore è tornato ad occupare il posto che merita nella cultura mondiale, ma per l'uomo è ormai troppo tardi.
LUCIANO BIANCIARDI: LA VITA AGRA, L’INTEGRAZIONE, IL LAVORO CULTURALE
“Un uomo comune finito dentro a una vita comune per circostanze eccezionali” dice di lui Pino Corrias nella sua bellissima biografia Vita agra di un anarchico. Bianciardi appartiene alla selezionata categoria di artisti che tanto hanno dato senza ricevere niente in cambio. L’operaio che viene dalla provincia, capace di cogliere in tempo reale il decadimento culturale e civile del Paese che molti suoi contemporanei scambieranno per progresso; che ride delle stesse cose in cui altri intellettuali e artisti si immedesimano. “La mia è una disposizione d’animo, non una ideologia” scriverà: sulle pagine del Guerin Sportivo, insofferente alle lusinghe del blasonato Corriere.
Quando pubblica La vita agra, ha già alle spalle ottantasei libri tradotti, tra cui i Tropici di Miller, più altri cinque suoi già pubblicati. Ma il successo che lo coglie, inaspettatamente, in quel fatidico 1962 è l’inizio – non di una nuova vita – ma della fine. Alla soglia dei quaranta, gli restano solo pochi anni, nei quali il troppo bere e le troppe sigarette non riusciranno ad alleggerirlo da quella contraddizione intima e irrisolvibile che è la nostalgia di un luogo che non esiste.