FRAMMENTI: UN MODO DI RACCONTARE E DI RACCONTARSI
elementi di scrittura e di consulenza autobiografica
elementi di scrittura e di consulenza autobiografica
LA CONSULENZA AUTOBIOGRAFICA
La vita di ognuno di noi è una lunga successione di frammenti a cui costantemente cerchiamo di restituire una continuità, re-interpretandoli e attribuendo ad ognuno di essi un ruolo nel dispiegarsi degli eventi. La nostra identità è costruita attorno alla narrazione che facciamo di noi stessi e di ciò che ci è accaduto, orientando l’atteggiamento e le nostre scelte, e quindi il futuro. Tutta quanta la nostra esperienza è una narrazione che muta con il tempo, assumendo versioni che meglio si adattano ad una ricostruzione che percepiamo coerente.
Dare forma al racconto della propria vita è un processo naturale che appartiene ad ognuno, tanto spontaneo quanto delicato, poiché il modo con cui lo facciamo può condizionare la percezione di ciò che siamo e limitare la nostra capacità di compiere scelte realmente soddisfacenti.
Il lavoro dello specialista in metodi e tecniche narrative e autobiografiche è finalizzato ad aiutare le persone a riordinare la propria esperienza di vita in una narrazione in grado di restituire una lettura più profonda dei diversi eventi, e a ricostruirne il senso complessivo, senza nessun intento giudicante o direttivo, stimolandone la stesura in forma scritta, che rappresenta uno dei principali strumenti di oggettivazione della narrazione di sé.
Possiede competenze che integrano le necessarie abilità comunicative – empatia, ascolto attivo – con una approfondita conoscenza della letteratura e della filosofia, e la capacità narrativa sia orale che scritta. La sua attività, oltre che a singoli individui, è rivolta a gruppi, svolgendo un’attività prevalentemente formativa e orientativa.
È attraverso il racconto che diamo forma alla nostra esperienza: l’uomo costruisce la realtà per mezzo della sua innata attitudine ad organizzarla tramite quella mimesis di cui parla Aristotele, che non è tanto una modalità di imitazione della vita nel senso di un dettagliato resoconto degli avvenimenti, piuttosto “una elaborazione e un miglioramento” (Bruner, 1990), ovvero una re-interpretazione che non riproduce la realtà ma ne fornisce una nuova lettura, e in quanto tale non è tenuta all’obbligo della corrispondenza con i fatti, piuttosto con il loro significato. Ecco perché una storia inventata può essere vera, anche se non è reale: la realtà stessa è una costruzione a cui accediamo attraverso l’atto creativo che ci permette di nominare, riorganizzare, dare forma all’esperienza secondo la nostra soggettività.
“Reale” deriva da res: «cosa»: ciò che esiste veramente, effettivamente e concretamente; in questo senso può essere sovrapponibile al concetto di “vero”. Eppure le nostre vite sono piene di “cose” di cui non è affatto semplice affermarne l’esistenza, ma che allo stesso tempo, per l’impatto che hanno su di noi, è parimenti impossibile non considerarle “vere”: la maggior parte di ciò che scatena emozioni o sentimenti, ad esempio. O certi concetti astratti, come la bellezza. Poi c’è l’arte, che, diversamente dalla vita, afferma verità e destini immutabili: se chiedessimo a qualcuno se è vero che Anna Karenina si è uccisa, la risposta non potrebbe essere che positiva, nella duplice accezione letteraria (nel romanzo omonimo di Tolstoj, la protagonista volontariamente mette fine alle sue pene d’amore gettandosi sotto il treno), ma anche reale (il romanzo è cosa che “esiste veramente, effettivamente e concretamente” nella nostra cultura, oltre che in quanto testo letterario, e termina effettivamente col suicidio della donna). La grande letteratura, quando si fa “metafora della realtà”, dice Ricoeur (1986), nella sua trasposizione soggettiva può creare narrazioni che vengono fatte proprie: pensiamo al desiderio mimetico di Girard (1965), o ai tragici epigoni del giovane Werther, ad esempio.
Tutte le storie, semplificando la lezione di Aristotele, si compongono di un inizio, uno svolgimento che modifica l’equilibrio iniziale, e di una conclusione. Solo alcune si risolvono in una catarsi, ma il tratto comune è che la loro finalità non è tanto la ricomposizione dell’ordine iniziale, ma fare luce sulla dimensione epistemica alla base di tale ricomposizione, il suo “senso”. La finzione letteraria è uno dei modi possibili per dare forma al mondo, restituendo un aspetto inconsueto all’ordinario attraverso l’esplorazione della realtà per mezzo del prisma dell’immaginazione. Il suo compito non è tanto descrivere quanto è accaduto, ma ciò che sarebbe potuto (o potrebbe) accadere, ovvero l’intero universo del possibile e del credibile. In questo senso, la grande narrativa è sovversiva, e non pedagogica, perché “congiuntivizza” la realtà, esprimendone la dimensione soggettiva, ipotetica delle infinite declinazioni del reale. Che se ne sia consapevoli o meno, tra canonico e possibile esiste una costante tensione dialettica; in particolare, nell’autobiografia, nel racconto di Sé, questa tensione ha lo scopo di mantenere “passato” e “possibile” uniti tra loro, così da provare ad accettare ciò che siamo e ciò che saremmo potuti essere.
Può sembrare un paradosso, eppure la prospettiva di chi racconta ciò che vive è proprio quella più infedele al testo, inteso come insieme dei fatti non mediati dal loro racconto. Pampaloni (1962) afferma che
“Nella narrativa contemporanea “io” è quasi sempre un pernio, un pretesto, un problema, non è quasi mai un autoritratto […] Proprio là dove si riscontra abbondanza di “io”, c’è penuria di vera autobiografia”
– e non a caso lo fa nella prefazione a quello che è considerato il romanzo autobiografico per eccellenza di Luciano Bianciardi, La vita agra, evidenziandone due aspetti: il primo è che l’autore, trasfigurandosi nel protagonista della storia, costruisce una narrazione universale che va oltre la sua esperienza personale. Il secondo – approfondito da un successivo saggio di Corrias (1993) – è che Bianciardi, raccontando di sé, rende coerenti i tanti, contraddittori frammenti che costituiscono la trama della sua (breve) esistenza, addomesticandola e cercando di venire a patti con essa: non la sua vita, ma una possibile chiave di lettura.
Le storie che raccontiamo e che ci raccontiamo servono proprio a questo: a proteggere le nostre vulnerabilità all’interno di un meccanismo di difesa e di adattamento, nominando le cose e ordinandole all’interno di un racconto che procede per selezioni, omissioni, interpretazioni arbitrarie dei fatti da cui sono originate. Purché ciò si accordi con la narrazione che facciamo di noi e del mondo, siamo disposti a credere all’inverosimile, talvolta persino privi della coscienza della parzialità della nostra prospettiva, e della manipolazione inevitabile che deriva dall’autocentramento in noi stessi. Guidati da un istinto antichissimo, costruiamo dentro e attorno a noi un universo di significato coerente, i cui limiti sono quelli degli strumenti che abbiamo a nostra disposizione, ridisegnando continuamente il labile confine tra l’auto-inganno e la salvezza:
“Ogni aspetto del nostro pensiero […] viene infatti definito dal linguaggio, da meccanismi consci e inconsci che utilizzano la parola per formulare domande, fare chiarezza, cercare significati” (Oliverio, 1997).
Non esiste pensiero e neppure memoria senza la capacità di tradurre fatti e concetti nel loro racconto, e ciò implica una correlazione direttamente proporzionale tra il vocabolario di una persona e la sua capacità di formulare pensieri complessi. Scrive Denti (1999):
“il pensiero umano si sviluppa in rapporto alle nostre capacità di linguaggio. Il nostro cervello […] non ha una parte destinata al pensiero ed una al linguaggio: le due cose risultano interdipendenti. Più parole conosciamo, più siamo capaci di pensare.”
E affinché la nostra capacità di pensare – quindi di sviluppare idee e comportamenti adatti a fronteggiare le diverse situazioni quotidiane (o più semplicemente trovare risposte agli stimoli che la vita ci pone) – si esprima nel modo più adeguato, occorre fare esercizio. Possiamo migliorare il nostro lessico, la capacità di comprendere e combinare parole in forma di concetti, ma anche accedere alle informazioni, e alle regole che ne permettono una fruizione critica ed esaustiva. Possiamo, insomma affinare la nostra capacità di costruire narrazioni in grado di dare forma alle nostre domande, cercando di dare loro una risposta. Il miglior modo per farlo è anche uno dei più antichi: leggere.
Leggere ha il grande vantaggio di permettere ad ognuno di regolare tempi e modi dell’apprendimento, e di gestire il flusso di informazioni in funzione dei nostri tempi mentali; di interpretare e tradurre i segni dell’alfabeto in immagini, idee, emozioni – di essere parte attiva di un processo, e non passiva, come spesso avviene davanti alla televisione o in Rete, dove gli stimoli sono infinitamente superiori alla nostra capacità di elaborarli, costringendoci ad una continua, forzata selezione indotta sia dalla ridondanza che dalla natura dei media.
Leggere ci apre anche ad altre possibilità, perché talvolta accade che non siamo in grado di cucirci addosso la nostra storia, e quelle degli altri possono guidarci, aiutandoci a ricostruirla. La letteratura ci aiuta a vivere facendoci fare esperienze che non faremmo, stimolandoci ad immaginare nuovi mondi possibili, aprendoci alle interazioni con gli altri. Ma anche a prendere le distanze dai nostri luoghi oscuri, dalle pagine buie della nostra vita, permettendoci di sederci accanto al dolore, guardandolo,cercando di venire a patti con lui. Scrive Bruner (2002) che “la grande narrativa è un invito a trovare i problemi, non una lezione su come risolverli. È una profonda riflessione sulla situazione umana, sulla caccia più che sulla preda.”
Abbiamo bisogno di grande narrativa per riscoprire chi siamo e chi potremmo essere. Abbiamo bisogno di cultura per trovare un senso alla nostra vita.
Basterebbe essere coscienti che noi stessi e la nostra vita siamo il prodotto di narrazioni soggettive che si sono definite attraverso selezioni e omissioni di fatti, attribuendo arbitrariamente significati riconducibili a noi quanto alla cultura a cui apparteniamo; che i ricordi – belli o brutti – sono anch’essi narrazioni che la nostra memoria rielabora in modo creativo, adattandoli e persino mutandoli nel tempo, anche svincolandoli dalla realtà dei fatti accaduti; che anche la nostra identità – quella in cui ci riconosciamo e quella che gli altri ci riconoscono – è una costruzione. Che, consapevolmente o meno, nel misurarci con noi stessi e con il mondo che ci circonda, siamo costantemente protesi alla ricerca di coerenza e di senso.